Quando siamo felici la nostra fantasia ha piú forza; quando siamo infelici, agisce allora piú vivacemente la nostra memoria. La sofferenza rende la fantasia debole e pigra; essa si muove, ma svagliatamente e con languore, con i deboli moti dei malati, con la stanchezza e la cautela delle membra dolenti e febbriccitante; ci è difficile distogliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall’inquietudine que ci pervade. Nelle cose che scriviamo affiorano allora di continuo ricordi del nostro passato, la nostra propria voce risuona di continuo e non riusciamo ad imporle silenzio. Fra noi e i personaggi che allora inventiamo, che la nostra fantasia illanguidita riesce tuttavia a inventare, nasce un rapporto particolare, tenero e come materno, un rapporto caldo e umido di lagrime, d’un’intimità carnale e soffocante. Abbiamo radici profonde e dolenti in ogni essere e in ogni cosa del modo, del mondo fattosi pieno di echi e di sussulti e di ombre, a cui ci lega una devota e appassionata pietà. Il nostro rischio è allora di naufragre in un buio lago d’acqua morta e stagnante, e trascinarvi con noi le creature del nostro pensiero, lasciarle perire con noi nel gorgo tiepido e buio, tra topi morti e fiori putrefatti. C’è un pericolo nel dolore così come c’è un pericolo nella felicità, riguardo alle cose che scriviamo. Perché la belleza poetica è un insieme di crudeltà, di superbia, d’ironia, di tenerezza carnale, di fantasia e di memoria, di chiarezza e d’oscurità e se non riusciamo a ottenere tutto questo insieme, il nostro risultato è povero, precario e scarsamente vitale.
Natalia Ginzburg, «Il mio mestiere», en Le piccole virtú